Nostalgia e Accettazione

La nostalgia malinconica è come un principe scacciato dal suo regno, caduto in una realtà senza valore, esposto senza alcun riparo alla svalutazione, all’aggressione e al rifiuto delle forze interne. Una nostalgia che ci fa intravedere quanto abbiamo desiderato invano, quanto abbiamo sbagliato, quanto eravamo illusi di essere padroni delle nostre rotte e quanto abbiamo scoperto di essere in balia solo del mare.
Una nostalgia consapevole dell’arroganza con cui abbiamo inondato le nostre vite e che ora ci chiede di abbandonare la maschera dell’eroe e di inginocchiarci di fronte a Poseidone, l’impetuoso dio del mare, per chiedere finalmente pietà, accettando la nostra fragile, quanto scomoda, umanità. La nostalgia è una sottile sofferenza che nasconde un prezioso tesoro solo per quell’uomo, o per quella donna, che avrà la forza di tenere accesa la luce della sua meta anche durante il naufragio.

 La nostalgia è un trascendimento orientatore (L. Colli 1999), è la stella polare per i naufraghi, è l’anelito dell’anima alla pace, una pace che in realtà non esiste, ma che per il tempo del viaggio è meglio gustarne l’illusione.

Quando la nostalgia ci guida essa è simile all’anelito di morte, tanto profonda è l’umiliazione dell’errore o dell’orrore commesso in battaglia e tanto potente il desiderio del ritorno tra i profumi della propria casa.

Odisseo uomo assediato dalla malinconia, da una nostalgia continua, inarrestabile che scorre come un fiume dentro di lui e che lo abbandona solo quando decide che è ora di muoversi. Ulisse salpa dall’isola di Ogigia, in lui già ci sono poche tracce di quei ripiegamenti infelici, ha sconfitto l’immobilità oscura, la depressione, giunto all’estremo, all’improvviso il vaso di dolore chiuso ermeticamente si rovescia come per un intervento di un dio.

Da quando ha lasciato Troia, non è più l’Ulisse di prima, non è lui che sceglie, che decide, deve aspettare che qualcosa accada dentro e fuori di lui, non è più lo stratega, il condottiero, che si ingegnava per vincere una guerra, la sua volontà sembra vana, ora è un uomo in balia degli dei. La vita stessa ha in custodia il segreto delle rotte.

Itaca è la sua meta, vuole con tutto se stesso ricongiungersi alle origini, ripartire da capo, partecipare di nuovo al mondo umano, ai suoi ruoli, ai suoi compiti, alle sue responsabilità, non è più tempo dell’eroe ma del saggio Re che ama con il cuore. In Itaca Ulisse pensa di trovare requie dalla sua fuga dalla verità che spetta all’uomo. Attraverso la rimozione, la rabbia, il fare frenetico, la guerra dentro e fuori di sé, l’oblio, egli aveva tentato di condurre e vincere, ma ora tutto sembra vano perché colui che è stato capace di mirabili imprese e di astute vittorie non è più capace di tornare a casa.

Itaca, il suo profondo bisogno, insegna a convertire il desiderio in fiducia, la deriva in rotta, gli approdi volontari o casuali nelle stazioni di un’epifania.

La nostalgia di Ulisse sembra il frutto di una coscienza piena di perdita, d’impotenza, di ricerca. Anche Ulisse come Etty Hillesum credo pensasse talora “Spesso mi son sentita ed ancora mi sento come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso: le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare dappertutto.”

Il fardello di un appagamento negato, può mutare in un carico prezioso, una ricchezza che a molti non è concessa e chi la possiede vorrebbe liberarsene, poiché sembra troppo pesante per il proprio cuore. Essa è invece qualcosa d’inalienabile, non un possesso di cui si è proprietari, qualcosa che potremmo sentire come peso ma anche come bene, qualcosa che comunque assomiglia a un compito, ad una responsabilità che ci è stata assegnata assieme al dramma. La nostra misera mente vede solo il dramma e non l’occasione che in esso vi è celata.

Le donne nell’Odissea aspettano Ulisse ad ogni lido, ne fecondano eroticamente il percorso, scompongono in molteplicità gli affetti, i significati e le stazioni, ogni sosta nasconde un insegnamento e una nuova energia. La donna, con la sua affettuosa concretezza, scioglie l’assolutezza della meta nella creaturale relatività degli approdi dell’Anima, gli approdi che nella visione ostinata della mente sono invece i suoi sviamenti.

Se infatti il capire e il volere sono strumenti indispensabili alla vita umana, da soli essi si rivelano insufficienti proprio nelle situazioni decisive. L’uomo non può trovare in essi le energie necessarie per procedere nella propria rotta, fino a che, accanto a lui, non si schiereranno anche le forze dell’Eros, sue fedeli alleate.

“Con astuzia e giocoso inganno l’anima attira verso la vita l’inerzia della materia che non vuole vivere. Fa crescere all’uomo cose inverosimili affinché la vita sia vissuta. Se non fosse per questa vivacità e per questa iridescenza dell’anima, l’uomo si fermerebbe alla sua massima passione: l’accidia. “ C. G. Jung

La linea di rotta da Troia a Itaca si flette, devia, indugia, rallenta, si moltiplica in liquidi sentieri talvolta ritornati su se stessi, simili ad un delirio, ad una deriva, che ad un viaggio. E’ deprimente, il viaggiatore cessa di sentirsi tale e cede talora allo sconforto di sentirsi naufrago. Ogni sosta, ogni smarrimento, ogni nuovo incontro, esercitano la coscienza all’ascolto delle voci in cui Itaca, proprio perché è perduta, si dona. Itaca è un’idea necessaria perché il naufrago ritrovi la forza del viaggiatore, la meta che lo mantiene in vita per la quale è disposto ad affrontare il destino, talora crudele pur di non morire vinto nel corpo e nell’anima.

Itaca sarà l’ultimo approdo, l’isola nativa, ma essa non è una conquista, Ulisse vi approda di notte, al buio, su una nave altrui, senza timone e senza timoniere, Itaca è un dono del mare, del sonno, dell’inconscio, senza motivo, senza scopo, un dono divino, non una conquista dell’eroe.

Odisseo, il portatore di odio, toccherà le sponde di Itaca solo quando avrà perduto ogni sua egemonia, vi arriverà immerso nel sonno lasciandosi passivamente condurre dai traghettatori invisibili ai remi di una nave Feacia, oscura e sconosciuta. Sembra portato dal caso.

Se il dolore, la rabbia, la fatica, la paura riescono a mutare gradualmente in accettazione, se si è accettato di perdere ciò che eravamo, ciò che avevamo, ciò in cui credevamo, perché ci rendiamo conto che tali idee non erano che allettanti fantasmi, allora ciò che cerchiamo ritorna da solo come dono del tempo con un moto spontaneo fin dentro al nostro mondo e vi ritorna non con la fissità di un fantasma di un ossessione ma con la vitalità di un bambino. Da vuoto, l’assenza diventa qualcosa di concreto e di pieno, qualcosa di presente.

Ma la parte più difficile da accettare è in un punto: la sola certezza che in Ulisse non aveva mai vacillato, la certezza che comunque andassero le cose, Itaca fosse davvero la meta. Ma Itaca non lo era. Tornato in patria uccisi i pretendenti e tornato a dormire nel suo letto avrebbe dovuto sottomettersi ancora al suo destino che Teresia gli aveva annunciato quando infine fosse tornato nelle sue case “Allora prendi il maneggevole remo e vai” (OD. XI 121) Proprio come nella vita di ciascuno di noi la meta si trova sempre oltre e al di là dei cari ed essenziali investimenti.

Il senso ultimo e più alto del viaggio è accogliere con dignità la sua fine, e con esso accogliere la fine delle nostre cose, di noi stessi, dei nostri progetti, delle nostre certezze, degli amici, la fine del nostro potere, della nostra volontà, la fine delle nostre illusioni eroiche. Sarà allora che “per te la morte verrà fuori dal mare, dolcemente si da ucciderti consunto da splendente vecchiezza” OD: XI 134 . Una morte che giunge fuori dal mare è quella di chi sa sostenerne la vista, mentre lei lentamente si avvicina, è una morte assai rara che scende adagio su una coscienza da gran tempo concorde, da tempo sua compagna.

 

BIBLIOGRAFIA

Luisa Colli “La morte e gli addii” ed. Moretti & Vitali, 1999

Omero “Odissea” ed Newton, 1993

 

 

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