L’Alzheimer è una patologia che porta ad una graduale degenerazione mentale privando il paziente della memoria, dell’attenzione, del controllo sui comportamenti e della capacità di esprimersi e comunicare. E’ un percorso doloroso e purtroppo molto lungo, in cui la persona patisce molta sofferenza per la sua acquisita incapacità di esprimersi e di farsi capire dagli altri.
Per fare un buon lavoro con questo tipo di patologia è essenziale entrare in contatto con i pazienti, creare un canale comunicativo che vada oltre la razionalità, la logica e il linguaggio come lo conosciamo noi. E’ importante trovare un modo per comprendere il malato, poiché si può ottenere una maggior collaborazione nelle terapie mediche, nelle manovre di assistenza, negli interventi infermieristici, ma soprattutto questa relazione può tranquillizzarlo, migliorare la funzionalità nelle attività della vita quotidiana, rallentare la degenerazione cognitiva soprattutto ridurre la sofferenza psichica.
Per più di dieci anni ho vissuto a fianco dei malati di Alzheimer, lavoravo in un Nucleo ad Alta Protezione per persone dementi, ogni giorno cercavo sempre più di entrare in sintonia con loro per comprenderli, per aiutarli a recuperare, almeno in parte, le loro capacità di espressione. Con gli strumenti della psicologia, potevo interpretare i loro comportamenti, i loro gesti, la mimica, le ossessioni, le manie come fossero dei sogni da decifrare, trovare un senso o dei codici di accesso per comunicare in un qualche modo con persone che stavano inesorabilmente perdendo la loro memoria e la loro identità. Mentre ero impegnata in questa ricerca, mi accorsi che già avevo un primo risultato significativo: la presenza, la costanza di stare accanto a loro quotidianamente con amore e senza giudizio, era un primo potente mezzo di comunicazione affettiva. I pazienti non ricordavano il mio nome, ma mi percepivano come familiare, le persone affette da Alzheimer infatti, presentano una memoria che chiamiamo implicita, cioè inconsapevole, non riescono più a mettere ordine ai loro ricordi, ne a chiamare per nome le persone, le situazioni, gli oggetti ma percepiscono una sorta di familiarità. Se è vero ciò che disse Antoine De Saint-Exupery, che “l’essenziale che è invisibile agli occhi”1, allora comunicavamo non solo con le parole e con i messaggi del corpo, ma anche con qualcosa che non si vede ma che è evidentemente fondamentale.
Anche se una persona è affetta da patologie degenerative mentali e non è più in grado di comunicare con noi, non può vivere solo di cure fisiche come il lavarsi, il vestirsi, il mangiare, il dormire, l’assumere la terapia; un essere umano ha bisogno di relazione sempre, anche quando è in stato vegetativo: siamo polvere di stelle non siamo solo sostanza materiale.
Usando il linguaggio della psiche quindi, piano piano, ho imparato a parlare con persone malate di Alzheimer e a farmi capire, o meglio a “sentire” con i sensi e con il cuore. Le persone con demenza perdono la consapevolezza ma continuano a funzionare con l’inconscio cercando di realizzare fino alla fine la loro personalità: l’anima non si deteriora con la demenza anzi prosegue il suo percorso.
Nel mio lavoro ho seguito anziani sia normali che ammalati, tuttavia la spontaneità del carattere emerge maggiormente nel demente, come se, grazie alla malattia, venisse tolto il superfluo della personalità e comunicato l’essenziale e il necessario. Se sappiamo ascoltare e osservare con pazienza possiamo capire molte cose del paziente, se invece ci limitiamo a categorizzare i suoi comportamenti in sintomi, perdiamo una possibilità di lettura e di comprensione ma anche il piacere della relazione autentica con lui.
La persona con l’Alzheimer è libera dai vincoli della coscienza e dalle difese dell’Io e l’anima che vive nell’inconscio fluisce leggera, vivace e sincera come mai nella vita era accaduto, entrare in relazione con loro con questo atteggiamento diventa anche divertente e comunque efficace per loro. Se invece a tutti i costi ci ostiniamo a volerli controllare, non faremo che scatenare l’aggressività e creare in loro malessere. Quando capii che l’inconscio continuava il suo percorso nonostante la malattia, mi si aprì una nuova porta della relazione e cominciai ad attingere dal profondo delle conoscenze attraverso l’utilizzo dei simboli e degli archetipi universali che accomunano tutti gli esseri umani e sono patrimonio genetico del genere umano.
Utilizzando ciò che gli antichi sciamani utilizzavano per guarire i malati: il canto dei miti e delle storie popolari, ho cominciato a raccontare le vicende delle principali divinità dell’Antica Grecia, le fiabe popolari, le storie e le fiabe antiche, leggere le poesie, antiche preghiere, ballare, ridere e cantare, ho attinto cioè dalla culla della nostra civiltà occidentale e ho ascoltato i frammenti di pensieri, le considerazioni e le storie che emergevano da questo materiale- stimolo. Questo materiale letterario non era quasi mai conosciuto dai pazienti in quanto, nella maggior parte dei casi, avevano una scolarità elementare e in secondo luogo non potevano ricordare quasi niente per via del deficit neurologico.
Le storie che raccontavo tuttavia avevano un effetto straordinario sulla loro memoria, catturavano materiali dalla memoria antica, come una calamita le immagini delle fiabe, delle poesie, dei racconti, attiravano ricordi, emozioni, e altri pezzi di storie. Ero stupita di come per ogni persona seppur demente, avesse qualcosa di assai appropriato ed interessante da dire, pur non ricordando quasi nulla, né riuscendo a fare per intero un discorso significativo, riuscivano a trasmettermi il senso di ciò che volevano comunicare. Ho iniziato così a raccogliere i pezzi delle loro idee e dei loro ricordi, a metterli insieme e a ricostruire l’essenza della vita secondo il loro sentire attuale. Parte di questo lavoro è stato raccolto nel libro “Salvarsi con una fiaba”2, in cui descrivo dettagliatamente la metodologia del lavoro psicologico svolto con i pazienti e dove ho trascritto ed interpretato le incredibili storie create nel lavoro di gruppo di questi anni. La potente calamita era il simbolo.
Come dice Marie Louise Von Franz, la più famosa allieva di C.G.Jung, i simboli sono uno strumento fondamentale per la cura della mente, sono una sorta di “rete con cui si può catturare l’ineffabile mistero di una esperienza dell’inconscio” 3 e funzionano anche nella psicoterapia al malato di Alzheimer perché egli vive quasi completamente al buio della coscienza, nell’inconscio.
Gli strumenti della psicoterapia mi hanno permesso di passare così da una riabilitazione puramente cognitiva ad una dimensione più ampia che comprendesse la persona a tutto tondo coinvolgendo così sia la sfera affettiva che quella spirituale.
Ho progettato e sperimentato sul campo, questo tipo di terapia, denominata “Terapia Simbolica”4, appunto perché lo strumento principale di lavoro è l’uso dei simboli archetipici. Tutto il substrato teorico deriva dalla psicologia analitica di C.G.Jung, secondo la quale ho cercato di re-interpretare i sintomi della demenza stessa. Mentre la parte scientifica deriva dalla Neuropsicologia clinica che mi ha permesso di controllare in modo oggettivo il miglioramento dei pazienti.
I risultati dopo un anno di terapia sono stati molto soddisfacenti: abbiamo osservato un effetto importante sulle condizioni mentali del malato, sia in termini di miglioramento cognitivo, sia anche un importante miglioramento del tono dell’umore con un effetto di serenità e di sicurezza, ma soprattutto una diminuzione consistente dei disturbi del comportamento che sono il problema principale sia per il malato che per i familiari e anche per gli operatori sanitari. Il progetto ha avuto circa un anno di sperimentazione e poi è proseguito come buona prassi terapeutica. I risultati si sono mantenuti anche a lungo termine i pazienti hanno avuto meno ricadute, riuscivano a mantenere un assetto cognitivo piuttosto stabile nonostante l’inevitabile progressione del danno neuronale e mantenevano più a lungo le autonomie nella vita quotidiana.
La scelta di lavorare su questa tipologia di pazienti con una terapia di gruppo mi sembrava la più adeguata perché ho potuto più volte osservare che molti aspetti del lavoro terapeutico vengano potenziati in gruppo. Con i malati di Alzheimer, il gruppo è una matrice rassicurante: messi in gruppo con il terapeuta sospendono il disturbo e cominciano a lavorare, si ha un effetto tranquillizzante. Tale effetto è simile ad un abbraccio per un bambino: placa il bisogno di esprimersi urlando e agitandosi o piangendo, probabilmente il paziente che vive costantemente nella confusione mentale e in un ambiente che non è più familiare per lui, il gruppo fornisce un potente effetto contenitivo soprattutto se lo si abbina alla forma del cerchio (mettendo le persone in cerchio) e a musiche rilassanti. Il terapeuta coagula il livello di coscienza e guida il gruppo, gli dà un ordine, oltre che contenerlo, per ciò egli deve fluire in sintonia affettiva con gli individui e con tutto il gruppo altrimenti la terapia non è efficace. Egli ha anche il compito di gratificare i pazienti, di dare senso, significato, storia e memoria alla loro vita passate e presente. In questo contesto tanto più il soggetto riuscirà ad esprimere emozioni attraverso immagini o frammenti di ricordi, tanto più riuscirà a liberare energia conflittuale migliorando così il suo stato psichico con un maggior benessere e serenità.
Anche se lavoravo quotidianamente con questi gruppi di malati che non ricordavano il mio nome né che c’eravamo visti il giorno prima, appena mi vedevano mi facevano una grande festa, volevano prendermi la mano o abbracciarmi, mi chiedevano dove sono stata per tutto questo tempo o talvolta esclamavano: “Finalmente, è da tanto che ti aspettavamo!”. Tutto era “come se”, mi conoscessero, mi amassero, si preoccupassero di me. Questo comportamento, poco usuale per i malati di Alzheimer, di solito più diffidenti, spaventati o aggressivi, ci fornisce un ulteriore prova che in loro funziona una memoria implicita, legata a componenti affettive, grazie alla quale possono esprimere la loro umanità, a patto che chi si avvicina loro abbia un atteggiamento privo di pregiudizi.
Se abbiamo la pazienza e la forza d’animo di accettare una presenza emotiva vera e autentica dell’altro, otterremo importanti risultati non solo con questo particolare tipo di malattia ma con ogni persona che incontriamo. Poiché anche se perdessimo il senno, la memoria o il controllo sui nostri comportamenti non perderemo la psiche, la nostra anima continua il suo percorso anche senza la razionalità e la logica della mente poiché sicuramente si serve della conoscenza del cuore.
Grazie, sono commossa. Ho cercato in internet qualcosa sul racconto di storie ai malati di Alzheimer perché volevo saperne di più su quel che succede con mia madre quando le racconto storie, e mi sono imbattuta nel suo testo. L’ho letto dapprima velocemente, poi adagio, sottolineando e gustando tanti passaggi, quelli che mi facevano capire meglio mia madre, che spiegavano tante delle cose che succedono tra me e lei. E mi sentivo bene, anch’io. Grazie. Spero non le dispiaccia se riporto questo suo testo nel blog che sto scrivendo su mia madre, “www.vadoacasa.it”, naturalmente citando la fonte. Grazie ancora, Angela Fioroni